Il 3 marzo scorso la rivista générations ha pubblicato un’intervista a Birgitta Martensson, condotta dalla giornalista Marlyse Tschui. Ne riportiamo il contenuto.:

Birgitta Martensson è malata di Alzheimer. Per l’ex direttrice dell’Associazione Alzheimer Svizzera raccontare la sua storia è del tutto naturale. Il suo leitmotiv non è cambiato: «Bisogna parlare della malattia, rompere i tabù che la circondano e fugare le paure.» Testimonianza.

Birgitta Martensson, che incontriamo nel suo appartamento di Epalinges, parla con entusiasmo di Drive my car, l’ultimo film visto al cinema e che le ricorda il Giappone, paese a lei familiare. Tra due giorni partirà alla volta della Svezia per andare a trovare la sua famiglia. Parlando con questa donna di 72 anni, molto attiva, sembra impossibile che conviva con l’Alzheimer.

«Avevo 65 anni ed ero ormai vicina alla pensione, racconta, quando sono comparsi i primi sintomi. Tutto è cominciato quando mi sono messa a ripetere le cose appena dette. Durante una riunione ho affrontato un argomento da trattare e i miei collaboratori, guardandomi perplessi, mi hanno detto: «Ma ne abbiamo già parlato!» Allora ho capito. Sapevo che mi stavo ammalando di Alzheimer. Non sono però andata subito dal medico. Ero sopraffatta dall’agitazione e dall’emozione all’idea di lasciare l'Associazione Alzheimer Svizzera, che avevo guidato per quindici anni con tanta passione.»

Questa malattia la conosce meglio di chiunque. Sua madre ne era affetta. Ed è proprio ciò che aveva convinto Birgitta, all’epoca manager di una casa editrice, a candidarsi per il posto di responsabile dell’Associazione Alzheimer Svizzera. «Sono stata scelta anche se non avevo il classico profilo per questo lavoro. Il mio progetto era gestire l’Associazione come un’azienda.» Un lavoro a cui si è dedicata instancabilmente, sviluppando attività, raccogliendo fondi e, soprattutto, impegnandosi senza tregua per far conoscere una malattia al di là delle paure e dei tabù che la circondano.

 

La diagnosi

Un anno dopo aver lasciato l’Associazione, Birgitta decide di andare dal medico.  «Conoscevo bene il professor Démonet che ai tempi dirigeva il Centro della memoria dello CHUV di Losanna. Gli ho chiesto di visitarmi. Inaspettatamente, i test non hanno permesso di formulare una diagnosi. Per i medici i risultati dei test neurocognitivi corrispondevano alle normali capacità di una persona della mia età. Mi sono quindi sottoposta ad altri esami, i cui esiti non hanno rivelato elementi abbastanza chiari. Ma io non avevo alcun dubbio. La malattia mi è stata diagnosticata solo l’anno scorso, quando mi hanno proposto di sottopormi a una puntura lombare. I due marcatori che consentono di diagnosticare con certezza l’Alzheimer erano positivi. Per me la diagnosi non ha cambiato niente, perché sentivo da tempo di convivere con la malattia.»

L’Alzheimer è una patologia silenziosa che si insedia molto prima della comparsa dei sintomi. Evolve lentamente e consente di condurre una vita normale o quasi normale per anni. È il caso di Birgitta che, dopo aver ricevuto la diagnosi, ha informato subito la cerchia di persone a lei vicine. «L’ho detto alla mia famiglia, ai miei amici e, a poco a poco, anche ad altri, in diversi contesti. Per esempio, lo sanno anche i miei vicini di casa. Già quando lavoravo all’Associazione insistevo sul fatto che non c’è niente di peggio di non sapere. Alcuni preferiscono nascondere la malattia perché fa paura, tanto più che non è curabile. Ma così tendono a isolarsi e a chiudersi in casa. I gruppi di dialogo sono molto importanti proprio per questo. Permettono di uscire dall’isolamento, di confrontarsi, di trovare il coraggio di parlare della propria esperienza, di non sentire il sostegno dei familiari come una privazione della libertà personale.»

 

I sintomi

Da quando, sette anni fa, Birgitta si è accorta che tendeva a ripetersi, sono comparsi altri sintomi: «Da allora ho difficoltà a orientarmi. Devo stare molto attenta per trovare la strada. E perdo le cose. Non le rimetto al posto giusto e non so più dove le ho lasciate. Allora giro nell’appartamento alla ricerca, per esempio, del telefono. Un altro sintomo è che trovo sempre più complicato il funzionamento degli apparecchi. Fortunatamente non ho problemi con quelli che utilizzo spesso, come il computer. Almeno per ora... Faccio fatica anche a ricordarmi i nomi delle persone, dei luoghi o i titoli dei libri. Leggo molto. Con altre cinque amiche ci scambiamo i libri. Quando parliamo di un libro, a qualche mese di distanza, non mi ricordo il titolo, ma l’illustrazione sulla copertina.»

Birgitta ha ricevuto consigli da parte dei medici o ha adottato determinate strategie? «Conosco troppo bene la malattia. Cosa vuole che mi consiglino? Vivo normalmente. Quello a cui tengo è continuare a vivere la mia vita, a rimanere attiva. Pratico molto sport, cammino a lungo, faccio fitness e vado in bicicletta. E, da poco tempo, mi sono appassionata ai sudoku!»

 

Alzheimer, una storia di famiglia

Anche una delle tre sorelle di Birgitta è malata di Alzheimer. Vive in Svezia. È lei che Birgitta andrà presto a trovare. «Vado a farle compagnia in modo che suo marito abbia un po’ di tempo per sé. Il ruolo di familiare curante è gravoso. Mia sorella nega la realtà, dice che non deve essere sorvegliata, mentre è evidente che ne ha bisogno. Era fisioterapista, molto dotata e con una grande abilità manuale, ma ha abbandonato ogni attività. Non vuole riconoscere di non essere più capace di fare alcune cose, come cucinare, e dice: «L’ho fatto per così tanti anni, ora tocca a mio marito! » In effetti, stiamo seguendo entrambe le orme di nostra madre. Birgitta non è sposata, quindi non avrà un familiare al suo fianco che possa assisterla. Se i sintomi si aggravano, accetterà di avere un aiuto domiciliare o di andare in una casa di cura? «Per l’aiuto a domicilio non so. Non sono ancora arrivata a questo punto. La casa di cura non la voglio. Non mi farò ricoverare. Ho deciso di ricorrere a Exit. Per me è una decisione ovvia. Poi bisognerebbe vedere se sarò ancora capace di intendere e di volere. Ma quello che dico oggi non è necessariamente quello che dirò domani... La sola cosa certa è che non voglio limitarmi a sopravvivere.»

 

Birgitta Martensson ha descritto l’esperienza vissuta con la diagnosi e il suo approccio nei confronti della malattia in un blog in inglese sul sito di Alzheimer’s Disease International.
 


In Svizzera circa 150 000 persone sono affette da demenza, in prevalenza Alzheimer. Passata la sessantina, molti si preoccupano: la memoria che traballa è un campanello d’allarme per la malattia o un normale sintomo legato all’invecchiamento?

Il Prof. Gilles Allali, direttore del Centro Leenaards della memoria allo CHUV, ripercorre con soddisfazione i progressi scientifici: «Trent’anni fa era impossibile formulare una diagnosi sicura mentre il paziente era ancora in vita. Dieci anni dopo, l’analisi del liquido cerebrospinale prelevato grazie a una puntura lombare ha consentito di individuare con certezza i marcatori che rivelano la malattia di Alzheimer. Oggi la diagnosi precoce è effettuata con una tecnica meno invasiva grazie alla PET.»

 

Preservare le funzioni cognitive

Per quanto esistano farmaci che trattano i sintomi della malattia, ancora nessuno la guarisce. Ecco perché è importante una diagnosi precoce: consente ai team del Centro della memoria di aiutare i pazienti a preservare il più possibile le funzioni cognitive e la capacità di svolgere le attività quotidiane. «Diverse misure permettono di avere un impatto favorevole sul decorso della malattia», precisa Gilles Allali. La stimolazione cognitiva e l’attività fisica hanno un effetto positivo sul rallentamento dei sintomi, così come l’attività sociale e alcuni regimi alimentari, tra cui la dieta mediterranea.

D’altro canto, altri fattori possono avere un impatto sfavorevole sulla memoria, come l’assunzione regolare di farmaci, tra cui i sonniferi e i tranquillanti. Anche l’abuso di alcol e la depressione esercitano un effetto negativo. Se questi problemi non sono trattati, la situazione si aggrava.»

 

Sostenere i familiari curanti

Con l’avanzare della malattia il paziente perde progressivamente la sua capacità di discernimento e i familiari curanti sono messi a dura prova. Se non hanno un buon sostegno, a forza di occuparsi del malato giorno e notte rischiano l’esaurimento o la depressione, quando non si ammalano loro stessi. «Per questo è importante consultare un centro come il nostro, spiega Gilles Allali. Anche la presa a carico dei familiari curanti deve essere integrata nel piano di cura del paziente. Il Canton Vaud, per esempio, offre consultazioni gratuite ai familiari curanti. Noi disponiamo di un’équipe di psicologi che segue esclusivamente i familiari curanti e di un’assistente sociale che si occupa dell’organizzazione della vita quotidiana dei pazienti per sgravare i familiari.»

 

Alzheimer, una malattia multifattoriale

Nel nostro paese, 50 000 persone sono affette da una forma di demenza diversa dall’Alzheimer. Potrebbe essere, per esempio, la conseguenza di un episodio vascolare cerebrale. Una delle cause frequenti è il consumo eccessivo di alcol. Esistono test che permettono di stabilire se le difficoltà di memoria sono causate da problemi di ansia o di sonno. Non tutti i vuoti di memoria sono dovuti a una patologia neurodegenerativa.

Anche le piccole dimenticanze legate all’età, che preoccupano, si rivelano spesso non gravi: «Il processo di invecchiamento colpisce diversi organi e non risparmia neppure il cervello, osserva il Prof. Allali. Quando i pazienti si rivolgono a noi perché dimenticano i nomi delle persone, dei luoghi o i titoli dei libri, per esempio, li sottoponiamo a test neuropsicologici che ci permettono di rassicurarli perché i risultati sono compatibili con il normale processo di invecchiamento. Se l’esito è diverso, procediamo ad altre indagini.»